Karol Józef Wojtyła nacque a Wadowice in Polonia, nel maggio del 1920, ed è morto nella Città del Vaticano il 2 aprile 2005. Conosciuto con il nome di Giovanni Paolo II è stato il 264° papa della Chiesa cattolica. Eletto al soglio pontificio il 16 ottobre 1978, Papa Wojtyla è stato il primo pontefice non italiano dopo 455 anni ed è stato, inoltre, il primo pontefice polacco, e slavo in genere, della storia . Fu arcivescovo di Cracovia e anche di Auschwitz ma si può dire che lui concepiva il suo sacerdozio come la soluzione a tutto ciò che era accaduto durante la seconda guerra mondiale, alle spropositate sofferenze che altri avevano vissuto anche al posto suo. È proprio durante la guerra che Karol decide di abbracciare il sacerdozio ed entra in seminario. Per lui quella di Auschwitz non era una tragedia irreale, piuttosto,era parte della sua vita in quanto, fin dall’infanzia, aveva diversi amici ebrei.
Padre Manfred Deselaers, responsabile del programma del “Centro di dialogo e preghiera” di Oświęcim (Auschwitz), fondato nel 1992, nei pressi del campo di concentramento di Auschwitz – Birkenau per volere del cardinale Franciszek Macharski, d’accordo con i vescovi di tutta Europa e i rappresentanti delle associazioni ebraiche, dice con convinzione: “Auschwitz è stata la scuola di santità di Giovanni Paolo II: sono convinto che Wojtyla abbia capito in questo luogo la verità sull’uomo perché le domande che ognuno si pone qui sono quelle fondamentali, sul senso globale della vita” e aggiunge : “In Polonia c’è la profonda convinzione che il sangue dei morti parli: bisogna mettersi in ascolto della voce della terra di Auschwitz e avere il tempo per riflettere sulla domanda “cosa significa tutto questo per me?”. E la risposta è diversa “se si è polacchi o italiani, ebrei o cattolici o sacerdoti e tedeschi come me”. “Il reciproco rispetto per le diverse sensibilità è la prima risposta al campo di concentramento dove c’era l’assoluta negazione dell’altro”. Innumerevoli scolaresche passano attraverso i cancelli di ingresso di Auschwitz, quelli noti per la scritta in ferro segnata in maniera incancellabile nella memoria collettiva “Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi)”.Da lì si addentrano nei viali tra i blocchi di mattoni rossi, in silenzio; molti sono colpiti emotivamente e con gli occhi rossi, davanti alle memorie di oltre un milione e mezzo di uomini, donne e bambini che qui crudelmente hanno perso la vita. Birkenau mette in evidenza la sistematicità della volontà di sterminio, rappresentata da serie ordinate di baracche, doppie linee di filo spinato a separare i fossati scavati dagli stessi prigionieri. Solo i forni crematori sono crollati uno sull’altro come un castello di carte perché fatti saltare in aria dai nazisti prima di abbandonare il campo nel tentativo di nascondere i propri crimini .Tutto questo fa ricordare un orrore che la mente umana fatica ad accettare. Come hanno potuto delle persone fare questo a dei propri simili? “Molti chiedono – espone Deselaers -: dov’era Dio?” che è “lo stesso interrogativo che poneva il premio Nobel per la pace Elie Wiesel quando dichiarava: “Prima che Dio mi chieda ‘dove sei stato?’, io chiedo a lui ‘dove sei stato tu quando qui venivano ammazzati mio fratello, mia sorella, la mia nazione?”. Sempre secondo Padre Manfred, “lo strenuo impegno di Karol a favore della dignità e dei diritti dell’uomo, la ricerca del dialogo tra cristiani ed ebrei, l’incontro di Assisi tra i responsabili delle religioni perché tutti cooperassero per la civiltà dell’amore, le radici della sua tensione per l’unità del genere umano: tutto nasce dall’esperienza di Auschwitz”. “Nel 1965, quando Woijtila era giovane vescovo , andò ad Oświęcim per la festa di Ognissanti. Nell’omelia spiegò le motivazioni secondo le quali era possibile guardare a questo luogo con gli occhi della fede. Difatti disse: “Se Auschwitz è il luogo che ci fa vedere fino a che punto l’uomo può essere o diventare cattivo, tuttavia non si può rimanere schiacciati da questa terribile impressione e bisogna guardare ai segni della fede, come Massimiliano Kolbe”. È lui che ci ha mostrato come “Auschwitz metti in evidenza anche tutta la grandezza dell’uomo, tutto ciò che l’uomo può essere, vincendo la morte in nome dell’amore così come ha fatto Cristo”, quando venne qui da Papa per la prima volta, asserì che la vittoria dell’amore sulla cattiveria e sull’odio non appartengono solo ai credenti e che ogni vittoria dell’umanità su un sistema anti-umano deve essere un segnale per noi”. Sicuramente Wojtyla ha voluto dire che se l’Europa vuole svolgere un ruolo di rilevante importanza nell’era moderna non può certo scordare Auschwitz. Auschwitz è stata la scuola che ha foggiato la santità di Giovanni Paolo II, quella prontamente riconosciuta dalla gente: “Perché qui – conclude Deselaers – Wojtyla ha compreso fino in fondo cosa significa la fede per l’uomo d’oggi. La gente di tutto il mondo lo comprendeva perché lui comprendeva loro”.
Marinella Tumino